Musica

Aeham Ahmad Pianista: Intervista esclusiva

In queste giornata di grandi tensioni e di tanti morti a Damasco ed in Siria, mi torna alla mente una intervista che feci qualche mese fa a Salerno, in occasione di “Linea d’Ombra”, ad  AEHAM AHMAD Il leggendario pianista di Yarmouk che partito dalla Siria ed accolto in Germania come profugo, gira tutti i teatri d’Europa portando la sua musica.

Il leggendario pianista di Yarmouk

Entro al Teatro Augusteo di Salerno, sul palco ad aspettarmi c’è un giovane pianista avvolto nella sua kefiah, seduto dietro ad un pianoforte a coda nero tutto bello lucido.

Dal palco e da quel pianoforte, mentre percorro il corridoio tra le poltroncine rosse, mi vengono incontro dolci note di una melodia araba che sembrano darmi il benvenuto. Aeham Ahmad è un pianista Siriano di origine palestinese; mi sta aspettando per cominciare la nostra intervista e farsi scattare qualche foto durante le prove, prima del suo concerto, che si preannuncia già tutto esaurito. Mi vede, e alla maniera araba si tocca la testa come per dire “ala rasi”: “su la testa”: il modo di ringraziare arabo usato anche come segno di disponibilità e di apertura.

Aeham è anche conosciuto come “Il Pianista Leggendario di Yarmouk”: un distretto della città di Damasco, popolato prevalentemente da palestinesi rifugiati in Siria.

Attualmente Yarmouk è un campo profughi “non ufficiale”, diventato durante la guerra, teatro di intensi combattimenti tra le forze governative siriane, e le cosiddette milizie dell’esercito libero della Siria. Una sorta di girone infernale in cui circa 18 mila abitanti (quelli ancora rimasti, prima della guerra erano circa 143mila, ndr.) sono ridotti a larve umane e sciamano tra le macerie di un borgo dove ancora spadroneggiano le milizie dell’ ISIS. Ebbene proprio in questo luogo Aeham ha sfidato la morte.

A vederlo da vicino, sembra un personaggio di un fumetto uscito dalla matita di Zerocalcare. La sua è una storia unica e straordinaria.

Comincia il suo racconto della Siria, e della difficile condizione di rifugiato: “Io uso la musica come arma contro la guerra. Lo so che non può cambiare niente ma almeno può far aprire la mente, può far incontrare nuovi mondi, persone diverse senza muoversi da casa propria.”

Mi dice di aver cominciato a suonare il pianoforte all’età di 5 anni, spronato dal suo papà, costruttore di strumenti musicali, e di essersi diplomato presso il Conservatorio arabo di Damasco. Prima della guerra, nel suo Paese era considerato un vero talento. Faceva concerti ed insegnava musica ai bambini di Yarmouk.

Quando è cominciato il conflitto – mi racconta – avevo deciso di non fare più esibizioni pubbliche e di rinunciare alla musica perché volevo restare neutrale a queste lotte interne. Non volevo essere coinvolto e non volevo coinvolgere la mia famiglia. Ma dopo sei mesi di silenzio assoluto non ce l’ho fatta più: ho ripreso il pianoforte, l’ho caricato sul carretto di mio zio fruttivendolo ed aiutato da i miei amici, ho cominciato a trasportarlo per i quartieri più depressi di Damasco. Volevo con la mia musica dare speranza a chi l’aveva persa”.

E proprio quegli amici cominciarono a filmarlo e a postare i filmati su internet durante le sue esibizioni tra le strade di Damasco. Da questi video il mondo comincia a vedere una città irriconoscibile che non esiste più dopo le innumerevoli bombe piovute su di essa.

Aeham suonava. Suonava il suo pianoforte in quelle strade squassate dalla guerra civile, tra quelle case saccheggiate dai combattenti, in mezzo alla gente che raccontava di episodi di arresti e di torture.

Insieme al padre cieco, che suonava il violino, per circa due anni ha suonato le sue composizioni tra quelle macerie; intorno a lui c’erano sempre bambini e ragazzi denutriti coperti di stracci. Suonava la sua musica e rischiava insieme a quella stessa gente, che era il suo pubblico, la sua vita, dividendo con loro fame ed umiliazioni. Poi un giorno, una granata esplosa nelle sue vicinanze, ha ferito una delle sue mani e la sua faccia. Aeham è sopravvissuto a malapena, ma la cicatrice sopra il suo sopracciglio che non andrà più via, attestano quell’ episodio.

Molto peggio di queste testimonianze fisiche, tuttavia, sono alcuni dei suoi ricordi. “Zeinab – mi racconta – era una bambina che veniva sempre a cantare. Un giorno una pallottola vagante la colpì, uccidendola all’istante”.

“Un giorno di dicembre, io ero con mio padre e con un suo amico cercavamo di vendere il pianoforte per comprare cibo per la famiglia. I miliziani dell’Isis, armati di fucili Kalashnikov, ci fermarono e diedero fuoco al mio pianoforte perché per legge islamica, la musica è sacrilegio e volevano portarmi via, ma mio padre disse che il pianoforte era sua e che non conosceva i due giovani uomini che si trovavano lì. E così ci lasciarono andare. Ma la paura fu tanta”.

La paura che Aeham deve aver provato in quel giorno probabilmente non scomparirà mai dai suoi occhi, anche se durante l’intervista noto un qualcosa di fanciullesco: ride, scherza, parla tantissimo. Poi improvvisamente il tono della sua voce cambia i suoi occhi, prima luminosi, diventano lucidi, pieni di viva commozione quando incomincia a parlare dei suoi genitori, che sono rimasti Yarmouk, e di suo fratello Alaa.

La fuga verso l’Europa

Dopo che il suo pianoforte fu distrutto, Aeham fu sopraffatto dalla paura. Lui, sua moglie Tahani e i loro due giovani figli, Ahmad e Kinan, fuggirono, ma non andarono molto lontano. I soldati li catturarono e li rinchiusero in una prigione appena fuori Damasco. Furono fortunatamente rilasciati pochi giorni dopo.

In quel momento in Aeham maturò una decisione difficile: Tahani e i bambini sarebbero tornati a Damasco, ma lui sarebbe fuggito in Occidente percorrendo la rotta balcanica, come migliaia di altri migranti. Oggi vive a circa trenta chilometri da Francoforte. Dal Governo Tedesco ha ricevuto il riconoscimento di rifuggiato. I video dei suoi concerti nel campo di Yarmouk hanno fatto il giro del mondo e vengono proiettati durante le sue esibizioni. La sua vita è cambiata, lui è un’altra persona. Ma non dimentica il suo impegno pacifista: “Per un periodo ho vissuto in un dormitorio, ora abito in un appartamento con mia moglie e i miei figli. Quando partii dalla Siria non riuscì di portarli con me, finalmente mi hanno raggiunto”. 

Mi confida. “Ora sto bene. Vivo un bel momento, ma resta la tristezza e la preoccupazione. Per questo non mi limito a suonare nei teatri: lì guadagno dei soldi per la mia famiglia, ma non smetto di fare concerti per strada, gratis, per la gente. E’ importante portare avanti questa cosa dei concerti gratuiti per diversi motivi. Ma non dimentico chi era con me a Yarmouk e mi aiutava. Non posso dimenticare Mahmoud, che spingeva il pianoforte e ha fatto i video, ed è sparito in un carcere di Assad. Mio fratello Alaa, che ha scritto le canzoni e da due anni è a Sednaya, una delle più terribili prigioni del regime. C’erano i ragazzi che cantavano con me: uno è morto, ucciso da un cecchino, uno ha avuto il braccio amputato, un altro non riesce ancora a muovere le dita per le torture. Non sono riuscito a salvare nessuno di loro”.

Ed aggiunge. “Ci sono tanti rifugiati che vivono in condizioni difficili, in campi affollati, non parlano la lingua del Paese in cui si trovano, e fanno fatica a integrarsi e a trovare un’occupazione. Con la mia musica cerco di regalare loro dei momenti di gioia; il mio obiettivo è farli sorridere e al tempo stesso dare loro la possibilità di incontrare ai miei concerti, chi ha la fortuna di vivere dove è nato. Io sono convinto che la musica possa essere uno strumento utile per fare in modo che della guerra in Siria si continui a parlare, ma anche per stimolare un dialogo, per creare un ponte tra i popoli, tra chi è più fortunato e chi non lo è”.

“La musica cambia la vita, – mi dice Aeham – quando ascolti la musica hai una giornata migliore. Così la pace cambia la vita dal male al bene, perché con la pace le persone possono stare al sicuro senza litigare.  Voglio cambiare tutto con la musica e voglio rendere il suono del piano migliore del suono delle bombe. Siamo solo persone, ma con un po ‘di buona volontà possiamo fare pace “.

Alla fine ci lasciamo con un lungo abbraccio e mi dice sottovoce: “Solo quando ci sarà la pace sarò davvero felice”.

Per l’immagine in evidenza e quella interna all’articolo si ringraziano Jacopo Naddeo e Antonio Caporaso.

 

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