Attualità

Caso Alpi-Hrovatin: Dopo 24 anni ancora nessuna verità

Era il 20 Marzo del 1994, quando la giornalista italiana Ilaria Alpi e il suo operatore Mirin Hrovatin, vennero assassinati a Mogadiscio, in Somalia. Ilaria, giornalista di 33 anni, si trovava in Somalia, la terra che lei amava, per compiere il suo viaggio decisivo, quello che era per lei «la storia della mia vita» e che lei stessa disse «devo concludere, devo fare, voglio mettere la parola fine». Ma non fu lei a mettere la parola fine, no. La parola fine la mise un commando composto da sette persone che le sbarrò la strada, aprì il fuoco, e sparò, uccidendola. Perché? Perché probabilmente Ilaria non era una giornalista, bensì una «signora giornalista» – come ricorda il suo operatore Calvi -, perché investigava a qualcosa su cui forse non doveva “ficcare il naso”, e per questo, “se l’è meritato”.

Ilaria Alpi si trovava in Somalia come inviata del TG3, per seguire la missione di pace Restore Hope, coordinata e promossa dalle Nazioni Unite, già dal 1992, per porre fine alla guerra civile. Ma la giornalista cominciò ad indagare su un possibile traffico di armi e di rifiuti tossici che avrebbe visto, tra l’altro, la complicità dei servizi segreti italiani e di alte istituzioni italiane. Alpi avrebbe infatti scoperto un traffico internazionale di rifiuti tossici prodotti nei Paesi industrializzati e dislocati in alcuni paesi africani in cambio di tangenti e di armi scambiate coi gruppi politici locali.

Il 20 Marzo del 1994, Ilaria aveva infatti intervistato il Sultano di Bosaso, Abdullahi Moussa Bogor, che riferì di stretti rapporti intrattenuti da alcuni funzionari italiani con il governo precedente, quello di Siad Barre, verso la fine degli anni ottanta.

ilaria intrvista

Normale dunque che tornati a Mogadiscio, Alpi e Hrovatin non trovarono il loro autista personale, ma si presentò un altro, che li accompagnò all’hotel Hamana, dinanzi al quale avvenne il duplice delitto. Normale dunque che quando la salma di Ilaria arrivò a Roma, sul suo corpo non venne disposta nessuna autopsia, ma solo un esame medico esterno e che sparirono alcune delle cassette girate da Miran Hrovatin e i taccuini con gli appunti di Ilaria. Normale che il sultano di Bosaso, Abdullahi Mussa Bogor, risulti tra gli indagati in qualità di mandante del delitto, ma che la sua posizione verrà archiviata. Normale che la documentazione di Ilaria, sulla sua investigazione, (che contiene nomi e fatti, ed evidenzia numerose circostanze legate a questi traffici, compresi intrecci con i mercanti d’armi e perfino la mappatura completa che dimostra come tutti gli interessi convergessero sulla Somalia, oltre che sui territori di altri Paesi dell’Africa costiera), non verrà utilizzata. Normale che l’acquisizione dell’immagine satellitare statunitense per chiarire la dinamica dell’agguato avvenuto, chiesta dai genitori di Ilaria, fu considerata “non utile ai fini dell’indagine”. Normale che il somalo Hashi Omar Hassan, identificato come autista dell’auto dell’Alpi, incarcerato nel ’98 come unico “colpevole” individuato della vicenda, venne assolto nel 2016 dopo aver scontato 17 dei 26 anni che avrebbe dovuto scontare secondo la pena inflittagli.

Nel 2013 venne riaperto il caso eppure, dopo 24 anni, di quello che successe quel giorno, di chi sparò, di chi li mandò, non si sa ancora nulla. La verità rimane celata. La giustizia negata. Ma finché non c’è verità, non ci sono né vincitori, né vinti.
Ciao Ilaria!

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Miriam Belpanno

Sono appassionata di libri, arte, cinema, viaggi. Intraprendo sempre strade diverse, cercando di occuparmi di qualsiasi cosa che mi è sottomano, perché qualsiasi cosa merita di essere raccontata, scritta, letta.
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