Cinema

“È solo la fine del mondo” di Xavier Dolan: Recensione

Inutile guardare un film dal punto di vista sbagliato e puntare il dito contro difetti non dipendenti dalla regia. Sì, perché E’ solo la fine del mondo (Juste la fin du monde) di Xavier Dolan è un capolavoro di messa in immagine, ma non di storia. Il regista, baciato dal successo planetario del precedente Mommy, dopo il ben più riuscito Tom à la ferme, ancora una volta sceglie di adattare una pièce teatrale, stavolta di Jean-Luc Legarce.

Perché il regista sceglie questo soggetto? Lui stesso in un’intervista ha detto di averlo letto su consiglio di Anne Dorval (attrice di Mommy J’ai tué ma mère), che ci aveva visto molti punti in comune con il suo modo di fare cinema, ma di non essere riuscito ad amare questo soggetto. Perché ci ha letto piuttosto il suo immaginario, le sue emozioni, tracce dei suoi film precedenti.

Infatti, ciò che fa Dolan con questo film è potenziare un soggetto piatto a favore di un ritmo visivo incandescente. E del resto lo stesso Tom à la ferme potenziava sul piano del racconto per immagini tutto quanto sulla carta era piuttosto incerto. I parallelismi tra i due film non sono pochi. L’inquadratura iniziale è la stessa: una macchina percorre una curva dirigendosi in aperta campagna. Se Tom era un copywriter di città venuto per i funerali della morte del compagno, Louis-Jean Knipper (questo il nome del protagonista interpretato da Gaspard Ulliel) è uno scrittore omosessuale che si ricongiunge con la famiglia dopo dodici anni, anch’egli in un’occasione di morte: la sua.

Louis-Jean è infatti un malato terminale a cui è rimasto poco tempo (frequenti inquadrature di un orologio a cucù alludono al senso del tempo). Qui ritrova l’eccentrica madre Martine (Nathalie Baye), l’irascibile fratello Antoine (Vincent Cassel), la fragile e semi-sconosciuta sorella minore Suzanne (Léa Seydoux), l’insicura e balbuziente cognata Catherine (Marion Cotillard).

A livello di storia nel film non succede molto e i dialoghi sembrano spesso evitare piuttosto che affrontare l’argomento, ma il film è raffinatissimo per fotografia, scenografia, costumi e montaggio. La coerenza che manca al soggetto la restituisce la regia: ad esempio, in una scena iniziale i personaggi conversano disposti in cerchio e la regia sceglie una serie di primi piani isolati e a stacchi.

La ragione è che il film viene poi alimentato da discussioni familiari, in cui ogni volta c’è sempre un personaggio, a turno, che se ne sta in disparte osservando gli altri quattro discutere. Quindi, ci troviamo di fronte ad una narrazione con punto di vista interno e alternato. La fotografia da cupa e tetra, a sottolineare il senso di morte che aleggia sul film, si infiamma quando si “accendono” gli stessi personaggi.

Il colore più ricorrente è il verde come la natura, in una lettura quasi leopardiana della morte. Altri tecnicismi arricchiscono l’elaborata mise en scène (primi piani stretti, carrellate su soggetti fermi, simbolismi, una sequenza onirica…). Quindi, più che ad un film di soggetto ci troviamo di fronte ad una lettura personale di un’opera teatrale. Il merito del regista sta proprio in questo, nell’essere riuscito a comunicarci la sua personale visione della pièce.

Il film si avvale di cinque buoni interpreti, su cui spicca la prova di Léa Seydoux. Meno convincente il protagonista Gaspard Ulliel, forse un po’ carente di presenza scenica, la cui scelta risulta tuttavia giustificata dal fatto che il suo personaggio si trova schiacciato dalle ingombranti figure dei suoi familiari.

https://www.newsly.it/european-film-awards-2016-vince-toni-erdmann-maren-ade

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