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Guerra in Siria: il bilancio di 7 anni di conflitto

Era cominciata come una protesta al regime di  Bashar al-Assad, si è trasformata in una guerra civile. Uno scontro degenerato in un bagno di sangue che non trova soluzione, nonostante accordi, tregue mai rispettate e trattative di pace andate in fumo.

In Siria si combatte da sette lunghi anni, da quel 25 marzo del 2011, da quando cioè, nella provincia meridionale di Daraa scoppiarono le prime proteste contro Bashar al-Assad, che poi dilagarono nel resto del Paese. La risposta a quella rivolta fu una violenta repressione e le proteste si trasformarono presto in conflitto armato.

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Il Bilancio di 7 anni di conflitto

Da sette anni continuano a morire civili, e le sofferenze di quel popolo evidenziano il vergognoso fallimento della politica internazionale di trovare una soluzione al conflitto. Questa guerra, è bene ricordarlo, lascia dietro di sè una tragedia umana colossale. Per chi è ancora vivo, è giunto il momento di porre fine a questo conflitto devastante. Non ci sono vincitori in questa insensata ricerca di una soluzione militare. Ma è chiaro che, chi ha perso è l’intero popolo siriano.

Il terribile bilancio umano di questa guerra racconta di almeno 350 mila morti, di oltre 6 milioni di sfollati, costretti ad abbandonare le proprie case pur rimanendo nel Paese, e di altri 5,6 milioni di profughi che hanno dovuto cercare rifugio nei Paesi vicini (Turchia, Libano, Giordania, Egitto, Iraq), per non parlare delle centinaia di migliaia di rifugiati alla ricerca di una nuova terra dove chiedere asilo, senza la speranza, ma molto spesso anche senza la volontà, di fare ritorno in patria.

In Siria il 69% dei civili vive in condizioni di assoluta povertà. I prezzi dei generi alimentari sono aumentati di circa otto volte in più rispetto al 2011; il 90% delle famiglie spende il proprio reddito per l’acquisto di cibo.

A questi dati, bisogna aggiungere che negli ultimi mesi in Siria più di 2 milioni di persone, la metà bambini, non hanno potuto ricevere aiuti umanitari. Nella Goutha est, i tassi di malnutrizione infantile sono quasi sei volte più elevati di quelli di un anno fa e più di un terzo dei bambini ha una crescita rachitica. Nell’enclave alle porte di Damasco, 60 scuole sono state colpite dai bombardamenti nei primi due mesi di quest’anno e più di 57 mila bambini hanno dovuto interrompere la scuola. Bambini e donne costituiscono attualmente circa tre quarti dei profughi siriani in Medio Oriente e Nord Africa.

Reazione USA agli attacchi chimici

Quattro giorni fa, almeno 100 persone sono morte in un sospetto attacco chimico a Douma, roccaforte dei ribelli nella Goutha orientale. Secondo quanto reso noto dall’associazione di beneficenza ‘Medical Care and Relief Organizations’ (USOSSM) “molte delle vittime erano donne e bambini e presentavano sintomi consistenti con l’inalazione di gas tossico”. Il presidente americano Donald Trump ha promesso una risposta “forte” all’attacco chimico sferrato a Douma, attribuito alle forze del regime. Francesi e statunitensi sarebbero pronti a un intervento contro Damasco, la Russia è contraria.

Ed è notizia di ieri che almeno un cacciatorpediniere Usa con missili guidati sta navigando verso la costa della Siria.  La nave da guerra Donald Cook, secondo quanto riportato dal quotidiano turco Hurriyet, ha lasciato il porto cipriota di Larnaca, dove era ormeggiata, per avvicinarsi alle acque territoriali siriane. Sarebbe arrivata a circa 100 chilometri dal porto siriano di Tartus, dove c’è una base della marina militare russa. Scatenando la risposta proprio della Russia: alcuni jet avrebbero infatti sorvolato a bassa quota il cacciatorpediniere Usa, compiendo manovre di disturbo mentre si avvicinava alle acque territoriali siriane.

La Casa Bianca ha reso noto che Trump ha cancellato il suo primo viaggio in America Latina. Il presidente rimarrà a Washington «per supervisionare la risposta statunitense alla Siria e vigilare sugli eventi globali». Trump era atteso sabato a Lima al Vertice delle Americhe e domenica a Bogotà.

La reazione di Mosca è tutta nelle dichiarazione rese Mikhail Bogdanov, vice ministro degli Esteri e inviato speciale del presidente Vladimir Putin in Medio Oriente, il quale ha detto: «Non credo che vi sia il rischio di un conflitto armato fra la Russia e gli Usa in Siria. Alla fine il buon senso dovrebbe prevalere sulla follia».

Dalle prime ore della mattinata di ieri nei principali aeroporti e nelle basi militari siriani è scattata la massima allerta per le minacce di attacchi Usa contro obiettivi governativi. Secondo l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus), che cita fonti militari locali, anche le forze russe e iraniane presenti sul territorio a sostegno di Assad sono in stato di allerta. I media ufficiali siriani per ora non smentiscono né confermano la notizia.

Si continua a morire

Intanto, l’altro ieri notte sono stati uccisi altri 19 civili, tra cui donne e bambini, in alcuni raid aerei con armi convenzionali condotti da velivoli non identificati nella regione nord-occidentale siriana di Idlib, nel distretto di Wadi Nassim. Secondo la protezione civile locale e fonti mediche, le vittime appartengono a tre diverse famiglie di sfollati in un’area fuori dal controllo governativo, e più volte bombardata da caccia di Damasco.

Attualmente, alla luce degli ultimi accadimenti, è difficile prevedere come si evolveranno le cose sul terreno, ma di fatto la Siria resta una complessa scacchiera di interessi e compromessi, la dove le parti in causa sembrano giocare a Risiko sulla pelle della popolazione civile violando tutte le regole dei principi umanitari e garantendo solo un  futuro incerto.

La frase più ricorrente fra le persone comuni è che, a sette anni dall’inizio del conflitto, “non si vede ancora la fine del tunnel” e prevale un sentimento di disperazione.

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