Cinema

C’era una volta a Hollywood: Tarantino compie la sua rivoluzione

Il nuovo prodotto di Tarantino segna definitivamente il nuovo corso inaugurato a partire da Django Unchained. Once Upon a Time in Hollywood è un malinconico film-omaggio al mondo del cinema degli anni 60. Virtuosismi e tecnicismi lo rendono un film unico nel suo genere.

È arrivato il momento dell’uscita italiana di C’era una volta a Hollywood (Once upon a time in Hollywood), l’atteso nono film di Quentin Tarantino. Presentato prima a Cannes, ed inserito a sorpresa in concorso (non a caso a 25 anni dal trionfo di Pulp Fiction), è uscito negli Stati Uniti lo scorso luglio, proprio negli stessi giorno dell’anniversario dei fatti di Cielo Drive.

Che il film non fosse una riproduzione fedele dei fatti era già chiaro dai trailer e dalla campagna pubblicitaria (passata anche abbastanza in sordina) portata avanti nei mesi prima del lancio. Tarantino, infatti, introduce due personaggi probabilmente mai esistiti e li pone al centro della vicenda.

Si tratta di Rick Dalton (Leonardo DiCaprio), un attore lunatico, instabile e desideroso di salire tra i migliori attori di Hollywood senza riuscirci e Cliff Booth (Brad Pitt), controfigura, amico e tuttofare di Dalton. Affermare che la storia di Booth e Dalton faccia di contorno a quella di Tate e Polanski è sbagliato, come lo è credere che le due storie procedano in parallelo.

Il mancato divo e il suo assistente sono il viatico per introdurre lo spettatore al magico mondo di Hollywood degli anni ’60, ambiente che il regista non ha vissuto per ragioni anagrafiche ma ha sempre detto di amare. Non poteva esserci scelta migliore per mostrare la vita lussuosa del mondo dello spettacolo tra set cinematografici (di giorno) e feste (di notte).

Ogni sottotrama è funzionale a questo scopo, come l’incontro di Cliff con una giovane hippy, nonostante l’ostentato disprezzo di Dalton verso i sessantottini, oppure la lunga sequenza che fa apprezzare la dolce ingenuità di Sharon Tate.

Sceneggiatura e narrazione: da Le Iene a C’era una volta a Hollywood

Chi ha perso gli scorsi 10 anni di evoluzione del Tarantino-pensiero non potrà non rimanere interdetto davanti a quest’ultimo lavoro. Il regista americano, salito alla ribalta per aver creato un nuovo genere mutuato dai rudi western e dai B-Movie (se ne parlerà più avanti), ha deciso da tempo di cambiare passo.

Già a partire dal poco riuscito Bastardi senza gloria era chiaro che la schizofrenia narrativa accompagnata a dosi massicce di violenza stava trasformandosi in altro. I successivi Django e The Hateful Eight non fanno altro che confermare l’abbandono dell’elemento no-sense, decostruito, episodico per abbracciare una costruzione più raffinata ed organica.

Il merito del regista di Knoxville è stato il giocare sui suoi stessi canoni per proporre allo spettatore qualcosa di nuovo. Giocare, quindi, sul comune equivoco che i suoi film siano semplicemente “violenti” per tendere – metaforicamente – un molla che scatterà solo alla fine del film.

Son quindi passati i tempi de Le Iene, girato quasi come un Kammerspiel, e dell’adattamento del genere pulp al cinema. Rimane l’ironia, le battute cult, la capacità di rendere pop qualsiasi cosa – anche una storia tragica che interessa un serial killer.

È evidente, inoltre, che la violenza passi da linguaggio narrativo, ad esplosione breve e repentina. In sostanza il Tarantino più maturo sublima quest’elemento e fa vivere lo spettatore nella sua attesa. Una svolta che non potrà piacere ai più, ma comunque coerente e legittima.

Si consideri la seguente parabola: i 100 minuti de Le Iene sono caratterizzati da un costante spargimento di sangue, lo stesso si può dire per Pulp Fiction, in cui ogni suo episodio non dimentica mai la lezione di Reservoir Dogs. Escluso Jackie Brown, omaggio ai film della Blackexploitation, i Kill Bill iniziano a modernizzare il concetto della violenza, emancipandola dai canoni del “duro western”.

I nazisti che bruciano in Bastardi senza gloria sono il punto d’arrivo di questo peculiare e celebre ciclo cinematografico. Poi a scendere fino a Once Upon a Time: il duello finale impegna solo ed esclusivamente i cinque minuti finali.

C’era una volta a Hollywood: il continuo e autoreferenziale omaggio al mondo di Tarantino

Ciò che era ispirazione sottesa diventa elemento di trama ben visibile. La carriera altalenante di Rick Dalton è il pretesto ideale per fare un lungo excursus sulla storia del cinema. L’attore viene convinto dal produttore Marvin Schwarzs (Al Pacino) a trasferirsi in Italia per qualche tempo, in modo da poterlo scritturare per qualche produzione locale.

La creatura di Tarantino ha modo di recitare in film di Sergio Corbucci (da cui viene il meno noto Django) e da Antonio Margheriti, maestro del cinema di genere celatosi per tutta la vita dietro lo pseudonimo Anthony M.Dawson. Un evidente transfer affettivo.

La sua cinefilia traspare in battute (da apprezzare in lingua originale) che fanno ridere in pochi: dal “Rosemary’s fuckin’ baby” fino al “che cosa orribile gli spaghetti western”. Un grande lavoro è stato anche fatto per riportare il personaggio Dalton nei film dell’epoca, girando scene il più verosimili possibile. Tarantino, utilizzando il pretesto di un film sui tempi d’oro di Hollywood, corona il suo sogno di dirigere e comparire idealmente nei film che hanno segnato la sua infanzia e la sua crescita artistica.

Quest’ultima non è certamente dimenticata dal regista, tanto da inserire continue autocitazioni verso suoi lavori. Non manca DiCaprio che incenerisce i nazisti in un suo film (“Qualcuno ha ordinato crauti flambè?”), oppure una fugace apparizione di Micheal Madsen o di Kurt Russel curiosamente nel ruolo di stuntman. Chi ha visto il film, inoltre, non ha potuto non notare le ossessive inquadrature su piedi femminili (spesso sporchi): probabilmente autoironia sul presunto “feticismo dei piedi” di Quentin Tarantino?

C’era una volta a Hollywood è il film meglio diretto di Tarantino

Questa è una convinzione abbastanza insindacabile. Tarantino è a casa nella sua Hollywood d’annata e non ha paura di osare come non ha mai fatto prima. Il suo nuovo film è decisamente carico di virtuosismi: riprese dal basso, dall’alto, riprese sghembe, dolly, plongees, riprese dal sedile posteriore. E ancora: carrellate in tutte le salse, a piedi, a cavallo, in auto, finte carrellate sul set e così via. Qualche affascinante long take e un montaggio volutamente da B-Movie impreziosisce il film.

L’ennesimo film di Tarantino girato su pellicola non delude anche grazie ad una fotografia degna di ogni aspettativa: brillante all’occorrenza, fioca ed offuscata in altre circostanze.

La colonna sonora non è da meno. Nonostante l’apparente avversione dei personaggi verso la hippy couture non mancano canzoni che hanno fondato la controcultura californiana, veri e propri tormentoni generazionali. Riproposti con un filo di malinconia, impreziosiscono un film già storicamente accuratissimo.

In conclusione (ed in tutta onestà), il rischio di rimanere delusi è alto: non ci sono trielli western, nessuno rimane chiuso nel bagagliaio, non ci sono valigette con contenuto scintillante, ma soprattutto Charles Manson appare per una manciata di secondi, e meglio non va alla bellissima Margot Robbie. C’era una volta a Hollywood è un film didascalico, malinconico, nostalgico che non smette di abbassare il cappello verso la magia del grande schermo, dove è possibile tutto ed il contrario di tutto.

C’era una volta a Hollywood: trailer del film

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Matteo Squillante

Napoletano di nascita, attualmente vivo a Roma. Giornalista pubblicista, mi definisco idealista e sognatore studente di Storia e Culture Globali presso l'Università di Roma Tor Vergata. Osservatore silenzioso e spesso pedante della società attuale. Scrivo di ciò che mi interessa: principalmente politica, cinema e temi sociali.
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